I Sapeur, gli Zappatori, assimilabili a soldati del Genio militare, fanno a pezzi a colpi d’ascia il tronco che intralcia il cammino della Baìo: un momento che si ripete più volte durante il corteo

Descrizione

Il Gran Giorno è arrivato, in questo estremo lembo d’Italia occitana che è l’alta Val Varaita protesa verso la Francia. A Sampeyre (Piasso, piazza, nella lingua locale) e nelle frazioni di Rore, Calchesio e Villar saranno i Tamburin, stamattina, a dare il segnale, battendo le strade per radunare il corteo dei personaggi. E per tutta la giornata sarà un’esplosione di colori, a contrasto con il bianco della neve che ancora fa da sfondo, ma già lascia intender+e cauti presagi di primavera. Colori, suoni, balli, libagioni. È la Baìo, la più antica festa dell’arco alpino, che si celebra ogni cinque anni il Giovedì grasso e le due domeniche che lo precedono. 

 
Ma non lanciate coriandoli, è l’avvertimento rivolto alle orde di «foresti» armati di telefonini e macchine fotografiche che nell’occasione invaderanno la valle. Anche se culmina nel primo giorno di Carnevale, la Baìo non è Carnevale. «E non è nemmeno una rievocazione storica, che è una cosa morta», sottolinea Gianpiero Boschero, un avvocato del posto, studioso di storia locale: «la Baìo è una cosa viva». Densa di reminiscenze, di allusioni, di implicazioni. 
 
Negli ultimi giorni, in giro, non si parlava d’altro. Tutti a informarsi, a prepararsi, a ripulire vecchi fucili, sciabole e alabarde, a ornare i costumi dei personaggi con centinaia di nastri di seta multicolori a motivi floreali, i bindel tramandati come un bene prezioso dalle famiglie, che adesso non si trovano più da queste parti e si vanno a prendere in Francia in una fabbrica di Saint-Etienne. L’evento coinvolge gran parte della popolazione. A metà ’800 il Comune di Sampeyre contava circa seimila abitanti, oggi sono un migliaio o poco più. Ma per la Baìo molti ritornano, anche quelli che da tempo si sono trasferiti in città, anche i discendenti di chi prima della guerra aveva varcato a piedi il confine, sul Colle dell’Agnello. 
 
«Una cosa viva»  
Per la Baìo si lavora nel chiuso delle case, ci si passano ruoli e costumi in famiglia, si relegano momentaneamente in secondo piano le normali occupazioni: «A mio figlio, che vestirà i panni della Espousa [la Sposa: tutte le parti sono interpretate da maschi, ndr] ed è in ansia per un esame al Politecnico di Torino, ho detto che adesso deve pensare a fare bene il suo personaggio», confida l’avvocato Boschero, alla decima partecipazione, che a Calchesio sarà l’Uzouart, la Guardia. La Baìo è un rito che unisce le generazioni, rinsaldando la comunità al proprio interno e nel rapporto con le radici. Un momento di aggregazione che può scatenare tempeste emotive. «Quando sento rullare i tamburi si risvegliano i ricordi. Ripenso a me stesso bambino, ai personaggi che ho interpretato, agli episodi e ai volti del passato, a chi non c’è più», riflette Jeannot Disdero, di Rore, alla sua tredicesima Baìo, che a 67 anni vestirà i panni del Vièi , il Vecchio, indossando la camicia e il gilet già utilizzati da suo nonno.  
 
Stando alla vulgata, la festa rievoca la cacciata dei Saraceni che all’inizio del X secolo si erano insediati a Fraxinetum, l’attuale La Garde-Freinet, nei pressi di Saint-Tropez, dando vita a uno staterello musulmano da cui partivano le scorrerie verso le vallate alpine. Ma si tratta di una riscrittura tarda, basata sul libro pubblicato nel 1891 da un parroco di Pontechianale, Claudio Allais. In realtà la Baìo è una concrezione di elementi eterogenei che si sono depositati nel tempo, innestandosi sul tronco di un’antichissima cerimonia propiziatoria pre-cristiana con cui si salutava l’imminente primavera. 
 
Per cogliere le stratificazioni, dice Boschero, bisogna per prima cosa guardare i cappelli dei personaggi. Su quelli degli Arlequin, che nel corteo hanno la funzione di tutori dell’ordine, sono appesi gusci di chiocciola, residui dell’origine ctonia di queste figure che prima di essere fatte proprie dalla Commedia dell’arte erano dèmoni legati ai riti di fertilità. La mitra portata dagli Uzouart è quella dei vescovi, così come le feluche degli Abà, i capi della Baìo, conservano il ricordo di quelle napoleoniche, evocative della libertà promessa dall’Imperatore. Il cappello più recente è quello degli Escarlinìe, gli Scampanellatori, che si ispira al copricapo dei bersaglieri, balzati nell’immaginario collettivo con la guerra di Crimea del 1854.  
 
Gli Abà - che entrano in carica in capo a un cursus honorum di quindici anni dopo essere stati designati - sono due: «Come i consoli nell’antica Roma, o come i sindaci di certi Comuni medievali», fa notare Boschero. Poi nel corteo ci sono i Grec (reinterpretati come i prigionieri dei Saraceni liberati dai valligiani): «Una memoria dei legami che univano i signori piemontesi con Bisanzio - i Paleologi del Monferrato, il ramo sabaudo degli Acaja...». E ci sono i Turc in catene: una traccia lasciata dalla battaglia di Lepanto, ma anche dalla piccola corte itinerante che nel 1483 aveva accompagnato nell’esilio parigino il principe Zizim, figlio del sultano Maometto II, cacciato da Costantinopoli dal fratello e di passaggio a Savigliano, dove venne accolto con grandi feste.  
 
Altro che Carnevale. «Nella Baìo c’è la storia, c’è il mondo, c’è la vita», riflette Boschero. «I suoi valori sono l’unione, l’armonia, la pace, la libertà». «Ci sono famiglie che con la Baìo hanno bevuto insieme e si sono riconciliate dopo anni», testimonia Disdero.  
 
Tragedia di metà ’800  
Il nome della festa, che è anche il nome di chi la fa e il grido che riecheggia durante il corteo, viene da abbazia-abbadia-badia, come si chiamavano le compagnie della gioventù che nel Medioevo avevano mutuato la terminologia cenobitica, sostituendo le preghiere con canti e balli. Esempi di aggregazione «dal basso», sempre mal tollerate dal potere, le Baìe sopravvissute in Val Varaita sono oggi sei (oltre alle quattro di Sampeyre, quelle di Frassino e di Bellino), ma ancora a metà ’800 diversi paesi conservavano la loro festa. Ce n’era una anche a Casteldelfino, il paese più a monte da dove nel 1863 partì Quintino Sella per l’ascesa del Monviso. Poi accadde il fattaccio: il valligiano che vestiva i panni di un cacciatore sparò a quello vestito da orso, come da copione. Uccidendolo per davvero. Nessuno seppe mai se fu solo un dannato incidente, ma da allora a Casteldelfino la Baìo non si è fatta più. 
 
Il processo al Tezourìe  
Un altro oscuro fatto di sangue, un delitto mai chiarito, si verificò all’indomani della festa nel 1864 a Becetto, una frazione sopra Sampeyre, che aveva il suo corteo e interveniva alla cerimonia di Piasso. Ma quell’anno i suoi abitanti avevano ecceduto con il vino, erano venuti alle mani tra di loro ed erano stati cacciati, avendo infranto la regola dell’armonia. Un interdetto che vige tuttora.  
 
Perché durante la Baìo si beve molto, ma non ci si ubriaca. Le occasioni si presentano a ripetizione, ogni volta che il corteo incontra un tronco messo di traverso sulla sua strada (secondo la lettura moderna, le barricate lasciate dai Saraceni in ritirata) e i Sapeur, gli Zappatori, ipostasi dei militari del Genio, lo fanno a pezzi a colpi d’ascia. Allora dalla folla si levano grida di festa e tutti si uniscono ai personaggi nei brindisi, a cui seguono canti e balli, accompagnati da flauti e fisarmoniche, e con la partecipazione anche delle donne, finché il rullo dei tamburi richiama all’ordine e il corteo riparte. Verso un’altra barriera. Il tutto, una volta, a spese degli Abà, che per questo erano spesso restii, quando la concessione di fare Baìo era a loro discrezione. Ma ora ci sono i contributi pubblici, e dal 1952 si è stabilita la cadenza quinquennale.  
 
Nella giornata del Giovedì grasso le quattro Baìe confluiscono tutte a Piasso, incrociandosi secondo un rituale complicato, e dopo i balli in piazza tornano nelle rispettive sedi, dove va in scena l’ultimo atto: il processo pubblico al Tezourìe e al Segretari , il Tesoriere e il Segretario, accusati di avere rubato il tesoro della comunità (anche questo fa parte della vita). Alla fine verranno graziati - tranne che a Villar, dove invece saranno fucilati (e poi resuscitati a colpi di vino buono) - ma prima si saranno difesi animosamente svelando gli altarini del paese. Il tono è farsesco, ma si possono verificare degli inconvenienti, come quando un Tezourìe mise in piazza una storia di corna, o un altro alluse al parrucchino di un valligiano, che minacciò di querelarlo. Ma le tensioni si sciolgono nella cena finale, dopo la quale ci si scatena nelle danze tradizionali fino al mattino. 
 
Anche oggi sarà una lunga giornata. Jeannot Disdero, il Vièi di Rore, aspetta la sua Vièio (un uomo, anche in questo caso) e intanto ha preparato il suo antico fucile fuori uso: in punta alla canna ha sistemato un po’ di farina, alla base ha praticato un foro e ha infilato un tubino di gomma. Ci soffierà dentro e farà fuoco a volontà.

fonte: La Stampa

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Inserito sul sito il venerdì 07 aprile 2017 alle ore 14:54:14 per numero giorni 2568

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